Guardo il telegiornale e, dopo le notizie di politica ed economia, passa un servizio sulla giornata del campionato di calcio appena conclusasi. Ma questa volta, a catturare l'attenzione non sono i risultati delle partite e la relativa classifica, non sono nemmeno le ultime novità di mercato e neppure gli aggiornamenti sull'andamento delle indagini sul calcio-scommesse.
No, questa volta vedo un allenatore (quindi il leader di un gruppo) che picchia uno dei suoi giocatori, reo di aver contestato la sua sostituzione. Sinceramente, rimango allibito più da un fatto del genere che dalla triste vicenda delle scommesse e delle relative partite truccate. Sì, perchè in questo caso viene messa sotto gli occhi del mondo intero la cattiveria di un universo dominato dal business, dove tutto è monetizzato, pesato, misurato in termini economici. E anche una partita, un goal, può fare la differenza. Qui si gioca non per il piacere di giocare, per il piacere della vittoria, per dimostrare chi è il migliore; si gioca per guadagnare, per mettere in tasca il premio per il raggiungimento di un obiettivo che viene definito "sportivo" ma che di tale definizione non ha nulla.
E i ragazzini vedono queste immagini, proprio quei ragazzini che al sabato e alla domenica scendono sui campetti di provincia, di parrocchia, per sfidarsi a una partita di calcio assieme ai loro coetanei. Che cosa potranno portare su questi campi? Sicuramente, attenti come sono a ogni sfumatura, a ogni gesto dei loro beniamini e pronti a copiarli in ogni cosa, non sapranno resistere al fascino di dimostrare chi è il "più forte" usando mezzi, gesti, atteggiamenti che esulano dalle regole del gioco. Si sentiranno abilitati a risolvere una controversia legata a un rigore o a una punizione alzando le mani, piuttosto che discutendone serenamente. E vogliamo aggiungere l'aspetto razziale della cosa? Anche nelle partite dell'oratorio, spesso, si arrivano a sentire dei cori non propriamente educativi rivolti a giocatori di colore. E qui mi sorge una domanda: ma chi è veramente "di colore"? Noi definiamo "di colore" quelle persone che hanno la pelle che non è bianca; e gli "altri", cosa dicono di noi? Potrebbero tranquillamente dire che anche noi siamo "di colore", visti dalla loro prospettiva. Anzi, forse siamo "di colore" più noi di loro, perchè quando ci arrabbiamo diventiamo rossi, quando abbiamo paura sbianchiamo, quando siamo arrabbiati diciamo di "essere neri".
Battuta a parte, nella scena vista ieri sera a Firenze, c'è tutta la difficoltà della convivenza, dello stare assieme civilmente nel rispetto delle differenze. Anche tra persone che si conoscono molto bene. Ognuno vuole affermare la propria individualità, come se fosse la cosa più preziosa al mondo e forse questo "nuovo individualismo" è il frutto del costo emozionale creato dalla globalizzazione.
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