mercoledì 16 maggio 2012

La misura inefficace

 

In un articolo dal titolo "Eugenetica e misurazione", apparso sul sito "Doppiozero.com" a firma di Pietro Barbetta - http://doppiozero.com/rubriche/336/201205/eugenetica-e-misurazione - l'autore si pone una domanda a mio avviso piuttosto importante: "Cosa si nasconde dietro le linee guida per la valutazione scientifica?"
Si parla, in particolare, della misura del quoziente intellettivo che, secondo l'autore, fa parte di quegli "strumenti che, per Herrnstein, dimostrerebbero che in una società aperta lo status si acquisisce in base al merito (e che) sono stati usati per anni come mezzi dominanti per definire le posizioni sociali degli individui. Sono cioè stati esattamente i mezzi principali di ascrizione di uno status militare, lavorativo, di cittadinanza, scolastico e persino genitoriale."
Insomma, sembra piuttosto chiaro che qualsiasi mezzo matematico che voglia "misurare" l'uomo, non soddisfa appieno questo sua funzione. Sicuramente può definirne l'altezza, il peso, la massa corporea, la pressione sanguigna, ma mai potrà dire quali sono le emozioni che abitano l'anima, quali i sentimenti, i sapori, i profumi che ciascuno di noi sente.
Ho l'impressione che sempre più spesso, invece, si voglia definire l'uomo usando strumenti, piuttosto che sentimenti: sarà l'effetto di questa società sempre più tecnologica, dove tutto ciò che è numero, tutto ciò che è formula precisa, fredda, pone meno problemi e fa risparmiare un sacco di tempo. Ma a me è proprio questo ciò che fa paura, la freddezza con cui si guarda all'umano, che non è più "troppo umano", purtroppo, ma al contrario, troppo distaccato dal sentire, dal sentimento.
Cosa diremo, allora? Che amiamo qualcuno 20 metri? Che gli vogliamo un kilo di bene? Che lo odiamo 10 ettolitri? 
Noto sempre più spesso che anche i bambini, (solitamente più aperti, più puri, meno legati al pensiero "questo non si dovrebbe dire così spudoratamente"), fanno fatica ad usare le parole dei sentimenti; si vergognano, quasi, a dire "ti voglio bene", e se lo dicono lo fanno sottovoce, timorosi di essere scoperti. E poichè i bambini sono lo specchio dei genitori, questo la dice lunga su quali siano i rapporti "d'affetto" che vivono nelle nostre famiglie. 
Ma è proprio così difficile lasciarsi andare a manifestazioni serene di ciò che proviamo dentro? E' proprio così sconveniente? O non è forse più pericoloso creare una società asettica, dove ognuno calcola perfettamente il proprio futuro senza preoccuparsi nemmeno un istante della persona che quotidianamente gli sta accanto? Una società sentimentalmente asfittica è proprio quella che vogliamo?

giovedì 3 maggio 2012

La difficoltà di convivere

 

Guardo il telegiornale e, dopo le notizie di politica ed economia, passa un servizio sulla giornata del campionato di calcio appena conclusasi. Ma questa volta, a catturare l'attenzione non sono i risultati delle partite e la relativa classifica, non sono nemmeno le ultime novità di mercato e neppure gli aggiornamenti sull'andamento delle indagini sul calcio-scommesse.
No, questa volta vedo un allenatore (quindi il leader di un gruppo) che picchia uno dei suoi giocatori, reo di aver contestato la sua sostituzione. Sinceramente, rimango allibito più da un fatto del genere che dalla triste vicenda delle scommesse e delle relative partite truccate. Sì, perchè in questo caso viene messa sotto gli occhi del mondo intero la cattiveria di un universo dominato dal business, dove tutto è monetizzato, pesato, misurato in termini economici. E anche una partita, un goal, può fare la differenza. Qui si gioca non per il piacere di giocare, per il piacere della vittoria, per dimostrare chi è il migliore; si gioca per guadagnare, per mettere in tasca il premio per il raggiungimento di un obiettivo che viene definito "sportivo" ma che di tale definizione non ha nulla.
E i ragazzini vedono queste immagini, proprio quei ragazzini che al sabato e alla domenica scendono sui campetti di provincia, di parrocchia, per sfidarsi a una partita di calcio assieme ai loro coetanei. Che cosa potranno portare su questi campi? Sicuramente, attenti come sono a ogni sfumatura, a ogni gesto dei loro beniamini e pronti a copiarli in ogni cosa, non sapranno resistere al fascino di dimostrare chi è il "più forte" usando mezzi, gesti, atteggiamenti che esulano dalle regole del gioco. Si sentiranno abilitati a risolvere una controversia legata a un rigore o a una punizione alzando le mani, piuttosto che discutendone serenamente. E vogliamo aggiungere l'aspetto razziale della cosa? Anche nelle partite dell'oratorio, spesso, si arrivano a sentire dei cori non propriamente educativi rivolti a giocatori di colore. E qui mi sorge una domanda: ma chi è veramente "di colore"? Noi definiamo "di colore" quelle persone che hanno la pelle che non è bianca; e gli "altri", cosa dicono di noi? Potrebbero tranquillamente dire che anche noi siamo "di colore", visti dalla loro prospettiva. Anzi, forse siamo "di colore" più noi di loro, perchè quando ci arrabbiamo diventiamo rossi, quando abbiamo paura sbianchiamo, quando siamo arrabbiati diciamo di "essere neri". 
Battuta a parte, nella scena vista ieri sera a Firenze, c'è tutta la difficoltà della convivenza, dello stare assieme civilmente nel rispetto delle differenze. Anche tra persone che si conoscono molto bene. Ognuno vuole affermare la propria individualità, come se fosse la cosa più preziosa al mondo e forse questo "nuovo individualismo" è il frutto del costo emozionale creato dalla globalizzazione.